Monnalisa Bytes
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Scienza e creatività: forse non esistono ambiti, all’apparenza, più distanti. 

Fin da quando si sceglie l’indirizzo di studi, c’è l’idea che le materie scientifiche siano qualcosa di diametralmente opposto a quelle artistiche. Eppure il sapere scientifico e il processo creativo hanno qualcosa in comune: la visione sul futuro, il mettere insieme elementi esistenti per creare qualcosa di nuovo. E per farlo ci va metodo.

Quindi scienza e creatività possono parlarsi?

Lo abbiamo chiesto a Emma Gatti, ricercatrice scientifica di quelle appassionate e un po’ fuori dagli schemi. L’abbiamo contattata affascinate da un progetto editoriale inedito: Monnalisa Bytes, “un magazine di comunicazione scientifica con rigore scientifico e flair creativo”.

Ciao Emma, raccontaci un po’ di te.

36 anni, milanese, una laurea in geologia dall’università Bicocca, un dottorato in geochimica dall’università di Cambridge e cinque anni di ricerca in America, prima alla NASA e poi al Caltech, entrambi a Pasadena, in California. Dopo 12 anni all’estero nel 2018 torno a Milano e inizio a lavorare come divulgatrice scientifica per le scuole e per altre realtà di divulgazione. Nel frattempo, i miei genitori continuano a chiedersi “cosa faccio davvero nella vita”. Con le scuole mi diverto, ma mi piacerebbe riuscire a raggiungere un pubblico più ampio. Provo a fare qualche video da youtuber, vengono malissimo e capisco che non è la mia strada. Mi sembra che manchi qualcosa. 

Emma Gatti Monnalisa Bytes

Emma Gatti – Editor e divulgatrice scientifica

Nell’estate 2019 incontro Luca Pianigiani, fondatore di Jumper e professore di editoria digitale alla NABA di Milano, ci sediamo a un tavolino della Feltrinelli di Piazza Aulenti un pomeriggio d’agosto milanese senza un’anima attorno e buttiamo giù la bozza di un’idea spaziale che unisce il sacro e il profano: la scienza dura e pura con l’arte grafica più all’avanguardia.

Cos’è e com’è nata l’idea di Monnalisa Bytes?

Dal desiderio di portare un po’ di vita e di anima alla scienza.

Non voglio dire “avvicinare la scienza alla gente”, perché è un concetto stra-abusato. Tutti vogliamo avvicinare la scienza alla gente, i risultati di un popolo che non pensa con il metodo scientifico sono ormai sotto gli occhi di tutti. Noi ci siamo chiesti “come lo vogliamo fare?”.

Quali sono i problemi dietro a un mancato coinvolgimento delle persone nella realtà della ricerca?

Il problema sta nella comunicazione (e nell’educazione, e nella società, ma questi sono discorsi a larga scala). Il come la si comunica, il chi la comunica, e il perché la si comunica. Monnalisa è un laboratorio per sperimentare nuovi modi per parlare di scienza con il pubblico del XXI secolo. La dimensione digitale e interattiva secondo noi è imprescindibile: non puoi costruire un prodotto editoriale non tenendo conto che il 90% dei Millennials legge le notizie solo sul telefonino.

Chi c’è oltre a te dietro questo progetto?

Monnalisa ha due anime: l’anima scientifica sono io, e quella artistico-creativa è Jumper, uno studio di comunicazione che dall’inizio degli anni 2000 si occupa di editoria, di nuovi media e di “guardare al futuro”, in particolare nell’ambito dell’immagine e delle nuove tecnologie. Sono un team giovane e molto affiatato, che non solo mi ha aiutato sul lato tecnico (loro è la creazione del sito e delle prime animazioni) ma ha anche contribuito attivamente a dare forma a Monnalisa. Non credo sia un segreto per nessuno che una geochimica non ne sappia molto di editoria, invece Jumper naviga da decenni in questo settore e ha saputo dare i contorni giusti al progetto.

C’è un modo per partecipare attivamente al progetto Monnalisa?

Innanzitutto siamo ancora in campagna di raccolta fondi. L’iniziativa è sponsorizzata dall’Università Bicocca e chiunque creda nell’importanza di Monnalisa può donare andando sul sito di Produzioni dal basso

In secondo luogo Monnalisa vuole coinvolgere ricercatori ed esperti attivamente nel progetto, perché vogliamo portare la voce dell’esperto al pubblico generico. Quindi vogliamo sentire la loro voce! Per collaborare con noi basta compilare un form senza impegno che si trova qui.

Infine, cerchiamo aziende ed enti interessati a commissionarci dei progettiCi sono troppi dati e ricerche dimenticati nell’etere, progetti sponsorizzati e finanziati che finiscono per avere zero impatto perché non li legge nessuno. Noi siamo qui anche per questo: per trasformare una ricerca in un prodotto di impatto. Questo è il momento giusto per contattarci e metterci alla prova, perché è quello che desideriamo di più: dimostrare che si può fare!

Gioie e dolori: qual è stato il momento più esaltante e quello più difficile durante il percorso per passare dall’idea a qualcosa di concreto?

La gioia quando abbiamo passato il target del crowdfunding in una settimana. Sapevamo che l’idea era forte e sapevamo che era il momento giusto per spingerla, ma non ci aspettavamo tanto successo in così poco tempo.

I dolori quando mi scontro con barriere e pregiudizi di ogni tipo. Dai pregiudizi di genere (se la stessa idea fosse stata proposta da un uomo in questo momento dove sarebbe?), a quelli legati alla mentalità italiana, ovvero la mentalità del “non si può fare”.

Rompere questa aria viziata, questa stagnazione di idee ed energie (che è quello che più di tutto porta le persone ad andarsene, a mio parere) è uno sforzo gigantesco. Tutti ce l’abbiamo in Italia questa forma mentis, anche i giovani, anche quelli che credono di essere aperti. A volte parlo con dei 30enni che non hanno più luce negli occhi. Li sento ripetere stanchi quello che i loro padri hanno detto loro tutta la vita, e questo mi frustra enormemente. A volte mi sento di combattere contro i mulini a vento.

Cos’è secondo te la creatività e come può essere applicata alla scienza?

La creatività è empatia, quell’emozione viscerale che attraversa il cervello e va dritta al cuore, e ci fa sentire vivi. È istinto, è l’altra metà della sfera umana. Sono profondamente convinta che nessuno delle nuove generazioni si appassionerà mai alla scienza se gli diciamo “vai a fare ingegneria così poi trovi un lavoro”.

Il bello della scienza è nello scoprire, nel capire qualcosa che ci sorprende, che ci mostra una realtà che al di là della nostra stessa immaginazione. È curiosità allo stato puro. La scienza è curiosità, la creatività è passione. Trovare un punto di congiunzione tra due sentimenti così umani è un nostro dovere. A un patto però: non deve essere perfetta. Per me la perfezione non è umana. Per essere davvero emozionale deve avere i tratti, splendidamente creativi, dell’imperfezione. Deve avere qualcosa di grunge, di viscerale. Un Van Gogh più che una natura morta, un concerto dei Pearl Jam più che un educato ballo delle debuttanti. Per me la perfezione è quanto di più distante ci sia dalla creatività. E il problema della scienza è che spesso è troppo perfetta, troppo sanificata.

Razionale/irrazionale. Rigore/caos. Logica/immaginazione. A volte abbiamo l’abitudine di pensare per compartimenti stagni quindi scienza e creatività possono sembrare molto distanti. Si può, invece, adottare il metodo scientifico per sviluppare la creatività?

Silvan Tomkins, uno psicologo di Princeton scrisse che

Dal matrimonio tra ragione e sentimento nascono chiarezza e passione. La ragione senza sentimento sarebbe impotente, il sentimento senza ragione sarebbe cieco.

Io sono d’accordo. Per me questo pensare a compartimenti stagni è indice di uno dei più grossi drammi dell’uomo moderno: la teorica divisione tra mente e cuore, tra razionalità ed emozione. Ma così non si può vivere. Così si arriva ai 50 con un bauletto pieno di demoni e di psicofarmaci.

Io la penso come Rita Levi Montalcini:

Pochi sono coloro che usano il cervello, ancora meno quelli che usano il cuore, e rarissimi quelli che usano entrambi. 

Vorrei che Monnalisa ci insegnasse ad usare entrambi.

In che modo scienza e creatività si parleranno all’interno del magazine?

Vogliamo fare un magazine data-driven, ovvero dove gli articoli saranno costruiti attorno ai dati, anziché attorno alle impressioni o alla narrazione tradizionale. Questo garantirà l’approccio scientifico. Dopo di che il nostro team creativo, fatto di programmatori, data analyst e grafici, animerà i dati, dandogli visibilità, interattività e chiarezza. “Animare” un dato significa mostrarlo in una maniera che il lettore lo possa capire all’interno di un certo contesto (sia esso geografico, storico, spaziale ecc..), lo possa “vedere” e ci possa anche interagire.

Di questi tempi sembra esserci una grande sfiducia nei confronti della scienza. Per quale motivo?

La nostra epoca si inserisce in un periodo in cui l’uomo non riesce più ad affidarsi ciecamente a Dio come faceva due secoli fa. La mente razionale ha bisogno di un approccio nuovo, però le domande restano sempre le stesse. Come dominare il dolore, come sopravvivere alla sofferenza, se esiste l’amore, come raggiungere la felicità. Il problema del nostro tempo si insinua nel bisogno disperato di sentirsi rispondere a domande non scientifiche usando un linguaggio che sembri tale, altrimenti noi ci crediamo nemmeno noi.

Non basta più dirci che ci siamo ammalati perché lo ha deciso Dio. Abbiamo bisogno di sentirci dire che ci siamo ammalati a causa del governo che sta sperimentando con dei vaccini alieni, allora sì che il cuore trova sollievo. Allora sì che il cervello trova una ragione. E già che c’è trova anche un nemico contro cui combattere.

Abbiamo bisogno di una nuova religione in cui credere, che ci dia delle ragioni per giustificare le sofferenza della vita. E qui nasce la pseudo-scienza, che attrae tutti quegli animi che non riescono a relazionarsi né con la prima né con la seconda. La pseudo-scienza ovviamente bara, perché prende quello che gli serve dalla razionalità della scienza e lo piega per dare risposte che con la scienza non c’entrano niente. Le persone si fanno abbindolare perché è proprio quello che ha bisogno di sentirsi dire. Per me tra il laureato di turno che su Facebook grida al complotto dei vaccini e il mago che ti dà il sale contro il malocchio c’è poca differenza. Il primo è l’evoluzione del secondo, semplicemente usa dei termini adatti ai tempi che corrono.

Parlaci anche dell’essere donna in un ambiente quasi del tutto maschile…

Guarda, vi dirò questo: tutto il mondo è maschile. Ogni ambiente di lavoro, a parte pochi, è maschile. Ad andare solo dove c’è un ambiente “femminile” ci ritroveremmo a fare ben poche cose nella vita. Inoltre anche gli ambienti “femminili” sono maschili, perché sono governati da una logica che mette princìpi e obiettivi maschili al centro. E quindi chi se ne frega.

Sono difficili? Sì. Facciamolo lo stesso. Resistiamo. Continuiamo a spingere.

Perché a nascondersi sempre, ad andare solo dove c’è un ambiente più facile, finiamo per fare il gioco della segregazione. Questo dico alle ragazze di 17 anni che mi chiedono se la NASA è un ambiente maschile: rispondo che sì, lo è. Come lo è quello del giornalismo, dell’imprenditoria, dell’editoria, della ricerca, delle aziende, delle banche, del cinema, eccetera. E dunque? Non facciamoci spaventare. Prendiamoci ciò che è nostro. Facciamo sì che tra 20 anni ogni ambiente sia anche femminile. Solo così il futuro sarà diverso.

Vuoi lasciare un consiglio o qualche suggerimento a chi ha un’idea in testa ma non sa da dove partire e come realizzarla?

Di non fermarsi ai pareri negativi, di credere nelle proprie capacità (lo dico soprattutto alle donne), e di non fare mai nulla per potere o vanità personale. Alla lunga porta alla disfatta. Ciò che mettiamo in circolo, sia esso il nostro cervello o la nostra creatività, deve essere per qualcosa di più grande di noi. Ci credo davvero.

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Questa intervista fa parte della nostra rubrica Creatività in cui cerchiamo di scardinare il concetto di creatività come dote innata e soprattutto di far capire che non è prerogativa degli artisti ma una qualità da sviluppare in ogni ambito. Puoi leggere le altre interviste qui.

Author

Laura & Francesca

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